Capitolo 2: Columba e Artúr
«Non presumiamo di giudicare le delibere del Concilio, che peraltro sono state difese con zelo anche dal papa di Roma, Giovanni III. La missione cui siamo chiamati non ha a che vedere con le delibere dei Concili, ma piuttosto con la cura delle anime e della Parola del Signore, affinché dedichiamo le nostre energie a diffondere la Buona Novella a coloro che ancora non la conoscono. Nella nostra terra madre la fede cristiana fu portata non dalle legioni, né dai Concili, ma dal lavoro apostolico di tanti santi uomini, come il venerato vescovo Patrizio, che illuminò le terre di Hibernia con la luce della Parola di Cristo. Molti altri hanno seguito le sue orme, diffondendo la fiaccola della fede in quella terra, dove numerose sono oggidì le comunità cristiane e la popolazione si è liberata dell'ignoranza e dei culti pagani.»
Padre Columba interruppe la dettatura e rimase per un po' in silenzio, con gli occhi socchiusi, come se stesse ragionando tra sé e sé. Luciano rimase in attesa, con la penna sospesa a mezz'aria, in attesa che l'abate proseguisse.
Non era mai successo prima a Luciano di avere a che fare con qualcuno che dettava improvvisando sul momento, senza leggere da un testo. Padre Columba aveva il talento del narratore e il dono della chiarezza, e quasi mai si interrompeva per correggere ciò che aveva appena dettato.
In quel momento l'abate disse: «Continuiamo», e Luciano ricominciò a far danzare la penna sulla pergamena, per catturare le parole di Padre Columba.
«Ma se muoviamo lo sguardo sulla Britannia, vediamo che tempi oscuri incombono su di essa. Invasori miscredenti hanno occupato le lontane terre britanne meridionali e, nonostante ciò possa diventare una minaccia anche per queste regioni del nord, i capi britanni, ciascuno in testa al suo clan, litigano tra loro invece di fare fronte comune. Le parole del noto sermone del venerabile abate Gildas risuonano ancora nei nostri orecchi: "In Britannia ci sono governanti, ma sono tirannici; ci sono magistrati, ma disonesti".»
Padre Columba si interruppe. «Un attimo, frate Lukiano, devo riflettere», disse col suo strano accento nativo. L'abate padroneggiava piuttosto bene la lingua latina, ma si udiva che non era la sua lingua madre. A volte aveva qualche indecisione grammaticale, e talvolta storpiava la pronuncia di alcune parole: per esempio, non aveva ancora imparato a pronunciare bene il nome di Luciano. Proprio per questo motivo, padre Columba aveva richiesto il servizio di Luciano come scrivano, affidandosi al suo latino come lingua nativa quando si trattava di dover mettere qualcosa per iscritto. E Luciano, nello scrivere, sapeva come correggere automaticamente gli eventuali errori grammaticali presenti nella dettatura dell'abate. Inoltre, avendo preso i sacri voti prima di partire dal Vivarium, frate Luciano era ora un monaco alla pari degli altri, con pieno diritto quindi di fare da scrivano a un abate.
Fra Luciano e frate Leo erano in effetti le uniche due persone di lingua madre latina presenti sull'isola di Hy. Quello che doveva essere per loro un breve soggiorno di passaggio, per poi ritornare al monastero di Bennchor in Hibernia, era diventato una permanenza di quasi due mesi. Inizialmente, Luciano aveva sentito l'urgenza di andarsene quanto prima: quel posto isolato e battuto dal vento appariva come un misero villaggetto costituito di poche capanne in legno, paglia e frasche, incluso l'edificio che fungeva da chiesa e da sala per le riunioni dei confratelli. Ma poi, con grande sorpresa, Luciano e frate Leo avevano scoperto che padre Columba teneva una collezione di pergamene incredibilmente ben fornita, ricca di manoscritti di estremo interesse. Entusiasti, avevano deciso di rimanere lì il tempo necessario per trascrivere almeno alcuni dei testi più interessanti, da portare via con loro, dal momento che non era ammesso sottrarre manoscritti all'abbazia di Hy.
Inoltre, Luciano si era reso conto con stupore che questo luogo sembrava abbastanza rinomato nella regione. Diversi giovani giungevano sull'isola dalle terre dell'interno per studiare all'abbazia o per diventare novizi, attratti dalla fama crescente di padre Columba.
Frate Leo, dal canto suo, aveva avuto lunghe conversazioni con padre Columba e con gli altri monaci, e infine si era unito ad alcuni di loro in una spedizione verso le terre dell'interno per andare a evangelizzare le popolazioni native. Luciano aveva come l'impressione che frate Leo, malgrado l'età matura, fosse coinvolto più da un certo senso dell'avventura che dall'intento di trascrivere preziosi testi da portarsi via nel loro viaggio di ritorno.
Mentre Luciano era immerso nelle sue riflessioni, senza preavviso padre Columba riprese la dettatura:
«Ahimè, purtroppo diversi signori della Britannia ancora si affidano ai culti dei druidi pagani, che certamente non possono essere d'aiuto nella difesa dagli invasori miscredenti. Il mio Druido è Cristo, il figlio di Dio, Cristo, Figlio di Maria, il Grande Abate, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Preghiamo che il Signore illumini i governanti britanni e mandi loro un re cristiano che sia in grado di riportare pace e salvezza in Britannia. Preghiamo ferventemente affinché...»
Qualcuno bussò all'entrata, interrompendo l'abate a metà della frase. Egli aggrottò la fronte, visibilmente accigliato. Il suo naso aquilino si tinse di un rosso paonazzo nel reprimere un moto d'ira, mentre esclamava «tair inna!», che, secondo quanto Luciano aveva imparato, doveva significare "entra" in goidelico, la lingua nativa di quelle regioni.
Un monaco allampanato, di cui Luciano non ricordava il nome, si affacciò sull'uscio della cella di padre Columba, e notando la presenza di Luciano si degnò di parlare in latino anziché in goidelico: «Perdona, padre Colmcille, il principe Áedán mac Gabráin è arrivato in anticipo sul previsto». I nomi goidelici suonavano ancora strani agli orecchi di Luciano, nonostante dal suo primo approdo sulle coste dell'Hibernia fossero ormai passati tre mesi. Se da un lato il nome Colmcille (col quale padre Columba era chiamato dai nativi) gli era ormai familiare, l'altro nome gli suonava molto esotico.
«Principe?», sbottò l'abate, irritato: «Suo padre sarà stato re anni fa, ma ora è suo cugino Conall il re. Questi capitribù si danno titoli solo perché comandano il loro clan e posseggono un gregge di capre». Padre Columba si alzò, borbottando: «Andiamo a vedere cosa vuole».
Luciano non era sorpreso dalla reazione dell'abate: aveva imparato che padre Columba era un uomo orgoglioso e allo stesso tempo che rigettava con sdegno titoli e potere. Un giorno un vecchio monaco lo aveva chiamato toísech, che significava "signore" o "capo" nella loro lingua, e padre Columba aveva risposto rimproverando il vecchio monaco e intimandogli di non chiamarlo più così. Da ciò che Luciano aveva saputo, padre Columba doveva aver avuto una certa autorità e posizione sociale nelle sue terre d'origine.
Ma Luciano sapeva anche che padre Columba, nonostante il suo carattere orgoglioso, era riconoscente al re di quella regione, re Conall, che oltre ad avergli concesso di stabilirsi sull'isola di Hy lo aveva anche rifornito di capre e pecore, che approvvigionavano i monaci del necessario: latte, lana, carne, e anche del prezioso materiale (la pelle ovina) da cui venivano prodotte le pergamene, che in quelle regioni del nord sostituivano il papiro come supporto per la scrittura.
All'uscita dalla cella dell'abate, li investì una folata di vento che portò loro l'odore salmastro del mare. Era una giornata soleggiata, e finalmente il sole di tarda primavera cominciava a riscaldare l'aria.
Gli ospiti li stavano attendendo presso l'edificio principale, che fungeva da chiesa. Si trattava di tre robuste guardie, un uomo corpulento che indossava abiti ben cuciti e comodi calzari, e un ragazzino molto giovane e smilzo, anch'egli ben vestito.
Padre Columba, accompagnato da frate Luciano e dall'altro monaco allampanato, scese per il pendìo e andò loro incontro.
Quando furono a pochi passi, l'uomo corpulento, che doveva essere il "principe" Áedán, tese le mani verso padre Columba, sorridendo ed esclamando: «Senóir Colmcille!», che in goidelico significava "venerabile Columba". Luciano riusciva di solito a comprendere parti di conversazioni nella lingua dell'Hibernia, dopo tre mesi di ascolto e di esercizio nell'impararla, e quindi tese bene gli orecchi e si mise ad ascoltare, perché i due interlocutori cominciarono ora a parlare nella loro lingua nativa. Al saluto di Áedán, padre Columba rispose in goidelico in modo brusco e diretto, senza cerimonie: «Salute a te, Áedán mac Gabráin, ti trovo bene. L'ultima volta che ci incontrammo eri al seguito di re Conall».
«Si, ricordo», rispose Áedán, sempre col sorriso stampato sul volto, «mio cugino il re volle venire ad assicurarsi che voi monaci disponeste di tutto ciò che vi serviva». Aveva una voce sonora e dal tono deciso. Poi, l'espressione del suo volto si fece più seria: «Oggi invece, padre, sono giunto qui con una richiesta e ti sarei molto grato se tu acconsentissi».
Padre Columba invitò Áedán a continuare la conversazione passeggiando all'aperto in direzione di una piccola altura. Il giovinetto, Luciano e l'altro monaco camminarono accanto a loro, mentre le tre guardie li seguivano a qualche passo di distanza.
«Padre, questo è mio figlio Artúr», fece Áedán, come per introdurre un discorso: «Sono venuto per chiederti di ammetterlo a formarsi presso la tua santa abbazia».
L'abate inarcò un sopracciglio: «Davvero? Pensavo che i figli dei clan più importanti di Dál Riata venissero destinati a diventare capiclan e guerrieri».
«Verrà il tempo anche per quello», rispose Áedán, «ma Artúr è solo alla sua ottava primavera, ha molto tempo davanti. E credo che qui alla tua abbazia possa ricevere un'istruzione migliore di quella impartita da qualsiasi precettore in Dál Riata». Il tono di Áedán si fece sbrigativo: «Io sono tra i pochi nel nostro regno, padre Colmcille, che pensano che il cristianesimo modellerà i destini della Dál Riata, come è già avvenuto in Ériu». Fortunatamente, Luciano comprendeva bene ormai che Ériu significava Hibernia in goidelico, e che Dál Riata era il nome del regno che si estendeva lungo quell'arcipelago dove si trovava l'isola di Hy, e anche verso le terre dell'interno.
Padre Columba non sembrava impressionato. «Questo non è il tuo unico figlio, vero?».
Áedán rise bonariamente: «Certo che no, padre! È il primo di cinque figli maschi! Senza contare la mia primogenita, che è una femmina. Se Artúr si troverà bene qui, potrei considerare di mandare in seguito qualcuno dei suoi fratelli alla tua abbazia. Chissà, magari uno di loro diventerà un santo monaco!».
Padre Columba poi cambiò discorso e si mise a conversare con Áedán riguardo questioni inerenti le dinamiche di potere in Dál Riata. Luciano non riuscì più a seguire il filo del discorso, perché troppi erano i termini in goidelico che non conosceva. Mentre camminava, si mise quindi a osservare il viso di Artúr: era un bambino con capelli biondo cenere, mingherlino e pallido, ma dallo sguardo molto serio che lasciava intuire una certa intelligenza dietro quegli occhi. Ma otto anni non era un'età precoce per venire a ricevere un'istruzione a Hy?
A un certo punto, mentre salivano su per il pendìo, padre Columba si fermò e fissò il ragazzino: «Ma sentiamo cosa ha da dire anche questo giovane. Artúr, a te andrebbe di soggiornare e studiare qui?».
Artúr, apparentemente per nulla intimorito, annuì.
«E perché?», gli fece l'abate per tutta risposta, con tono indagatore.
Artúr deglutì, e poi rispose con una voce cristallina che sorprese Luciano: «Perché voglio diventare saggio e giusto come i re».
Padre Columba parve quasi divertito dal tono del bambino, e ribatté: «Ma, mio caro giovine, lo sai che spesso i re non sono né saggi né giusti?».
«Si lo so», rispose Artúr, «ma io intendevo quei re che non pensano al loro potere, ma al bene del loro popolo».
L'abate si fece pensieroso, poi si rivolse ad Áedán: «La madre di tuo figlio è britanna, non è vero?». Qui Luciano dovette fare uno sforzo nella traduzione mentale dal goidelico, perché il termine latino "britanno" (riferito alle popolazioni della Britannia come distinte da quelle dell'Hibernia) suonava completamente diverso nella lingua parlata da padre Columba e da Áedán. Fortunatamente, fare da scrivano a padre Columba gli aveva permesso di imparare il significato di molti termini goidelici.
Áedán rimase perplesso di fronte alla domanda, e rispose esitante: «Si, padre, mia moglie Guenfron è figlia del re Tutgual Tutclyd di Alt Clut... Anche mia madre era una zia di Tutgual... Matrimoni tra noi e i clan britanni aiutano a mantenere la pace tra i due regni...».
«Quindi il ragazzo è per tre quarti britanno», disse padre Columba tra sé e sé, quasi sottovoce.
Áedán sembrò preoccuparsi, come se temesse di aver detto troppo: «Perdona padre, ma non capisco, cosa c'entra questo?».
Il vento soffiava più forte ora. Padre Columba si avviò a scendere dalla cima della collina. «Si, Áedán», disse, «per tuo figlio studiare all'abbazia può essere un'esperienza di formazione molto importante. I miei confratelli sono esempi di santità, saggezza e conoscenza. E poi abbiamo monaci provenienti da un monastero vicino a Roma, il cuore della cristianità. Frate Lukiano, il mio scrivano che cammina qui con noi, è uno di questi: è madrelingua latino, e sarà senz'altro un ottimo tutore per tuo figlio Artúr».
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