lunedì 15 aprile 2024

5 - TUTGUAL TUTCLYD

Ci volle un po' prima che Tutgual si riprendesse dall'accesso di tosse. Non aveva mai contato su Riderch per quanto riguarda il potere, sapeva che non ne era portato. Fortunatamente era il suo primogenito, Morcant, ad avere la giusta indole per guidare la sua gente. Ma ciò non autorizzava Riderch a vivere pigramente, non curandosi nemmeno della sua famiglia. Tutgual doveva ricordargli dei suoi doveri. E poi, c'era qualcosa che anche Riderch doveva sapere, riguardava un possibile attacco al loro clan, dopotutto.

“In ogni caso, non volevo parlarti degli Engle”, gli disse non appena ebbe ripreso fiato. Anche se nessuno era vicino a loro, Tutgual abbassò il tono della voce: "C'è una faccenda più seria. Alcuni dei miei cugini starebbero cospirando contro di me. I miei informatori li hanno visti incontrarsi in circostanze sospette. E durante l’ultima riunione del consiglio allargato dei capiclan, quella testa calda di Cynan ha avuto l’impudenza di dire che nostro cugino Neiton sarebbe il giusto guletic se dovesse scoppiare una guerra. Avrei dovuto mettere Cynan agli arresti quando ha parlato così, ma Serwan è intervenuto redarguendolo duramente e Neiton ha detto che l’unico guletic legittimo di Alt Clut sono io, chiudendo il discorso e salvando l’impudente”.

Vide che suo figlio aggrottava la fronte, forse finalmente era rimasto colpito. Ma quando Riderch aprì la bocca lo fece per dire: “Scusami padre, guletic indica l’amministratore o il re? Mi sono sempre chiesto questa cosa”.

Tutgual dovette reprimere un conato di tosse e sentì il sangue salirgli alla testa. Ma trovò la calma necessaria per rispondere senza urlare alla provocazione: “Riderch, per quanto a te non interessi nulla, questa è una cosa seria. Questo episodio mi ha dato conferma delle informazioni riservate che mi portano i miei informatori, secondo cui ci sono movimenti e incontri sospetti tra i miei cugini e la loro cerchia, anche se non sono stati colti in flagranza di cospirazione finora. Comunque, finché la Guardia Reale mi rimane fedele e la Guardia della città mi tributa il titolo di ‘Difensore del popolo’, non hanno speranze”. Poi, lasciandosi andare a un tono più risentito, aggiunse: “E per rispondere alla tua curiosità, sappi che il termine guletic non esclude l’uno o l’altro: un buon re è un buon amministratore, come pure un buon capo clan e pure un buon capo guerriero. Il guletic, per essere rispettato, deve essere tutte queste cose. Per molti anni, fin da quando tu eri un infante, è ricaduta su di me la responsabilità di essere tutto questo, ma ormai sono vecchio. La mia ultima consolazione è che tuo fratello Morcant è all’altezza della situazione”, terminò, tradendo suo malgrado una certa esasperazione. Non era così che si aspettava di concludere la discussione con Riderch, ma il suo atteggiamento indisponente non era cambiato dall’ultima volta che avevano parlato.

 

Fu in quel momento che Riderch si fece serio e parlò: “Padre, il motivo principale per cui volevo parlarti era per dirti che io e Languoreth abbiamo deciso di partire per un viaggio, per qualche tempo”.

Questo era oltre l’immaginabile per Tutgual: “Che cosa significa?! Dove dovreste andare?!”.

“Padre, ho preso questa decisione da giorni. Partiremo tra un paio di settimane, ma non staremo via a lungo”.

“Perché mi fai questo? Dimmi qual è il motivo!”.

“Sarà solo per poche settimane al massimo. Io e Languoreth ne discutevamo da tempo, ho deciso che questo era il momento adatto. Presto sarò troppo assorbito dai miei doveri verso il regno e non potrò più concedermi un viaggio privato”.

“Riderch, tu possiedi doti che pochi uomini hanno: sei giovane, forte, ricco, intelligente, sei addestrato per batterti in battaglia, potresti avere un potere immenso se solo lo afferrassi. Invece decidi di fuggire. Certe opportunità non si presentano due volte”.

“Ti prometto che non ho intenzione di sprecare ciò che sono e ciò che tu e mia madre mi avete dato. Proprio per questo ho deciso di prendere un ultimo periodo di libertà, per poi tornare pronto a tutte le mie responsabilità”.

 

Tutgual sospirò impercettibilmente. Avrebbe potuto indagare le ragioni per cui suo figlio aveva preso una così strana decisione. Avrebbe potuto semplicemente negare il proprio consenso, e Riderch sarebbe stato costretto a obbedire. Ma, ragionando velocemente per qualche momento, giunse alla conclusione che non ne sarebbe scaturito nulla di buono. “Vai allora, vai”, disse alla fine. “Ma porterai con te qualcosa”, e così dicendo si alzò dallo scranno, seguito da Riderch, e lo accompagnò nella propria stanza.

 

La stanza da letto del re era confortevole, ma sobria. Spessi teli appesi alle pareti proteggevano dal freddo del nord: nonostante la primavera fosse arrivata, Tutgual soffriva ancora il freddo, senza dubbio a causa della malattia. L’arredamento era scarno, come piaceva a lui: una scrivania di quercia con gli oggetti personali del sovrano; sopra di essa un piccolo specchio appoggiato alla parete, un tempo usato da sua moglie; poco più in là un letto in legno massiccio, che da quando Elufed non c’era più era diventato troppo grande.

Accanto al letto giaceva un grosso scrigno, delle dimensioni di un forziere basso e allungato. Tutgual estrasse una chiave dalla propria cinta, si chinò e lo aprì. Estrasse un fodero di metallo, riccamente decorato, dalla cui estremità spuntava l’elsa di una spada, una bianca elsa in avorio, e senza dire una parola lo porse al figlio.

Riderch rimase a bocca aperta: “Padre, questa è Dyrnwyn, la Bianca Elsa”. Suo figlio lo guardò con uno sguardo interrogativo.

“Prendila”, rispose Tutgual.

“No padre, la Bianca Elsa deve rimanere qui, è il legato più prezioso della nostra famiglia da generazioni, non è così? Dovresti lasciarla a Morcant, piuttosto”.

“Se deciderai davvero di partire la porterai con te come pegno, impegnandoti a riportarla indietro quando tornerai, cioè quanto prima”.

Riderch, con gli occhi che gli brillavano, prese in mano il fodero, studiandone le ornamentazioni, poi estrasse la spada.

“Dyrnwyn non è solo una spada di splendida fattura, ma anche di una potenza eccezionale”, proseguì Tutgual. “Mio padre e mio nonno la chiamavano Caledfwlch, che nel loro dialetto, che voi giovani state dimenticando, significa ‘taglio potente’. Mio padre mi disse che non esiste al mondo una spada dal taglio migliore di questa”.

Riderch alzò la testa, e per la prima volta Tutgual vide nel suo sguardo riconoscenza: “Padre”, disse Riderch con rispetto quasi solenne, “questa è una grande responsabilità di cui ti sono grato. La riporterò qui intatta”.

Tutgual fece una smorfia sarcastica: “Non è necessario che la mantieni intatta, potrai pure sguainarla se ti dovrà capitare di usarla. Ti servirà una scorta, comunque”.

“Ho già pensato di portare con me l’Orso e i suoi uomini, oltre al mio scudiero. Sono perfino troppi, basterà la loro semplice presenza per tenere alla larga eventuali banditi. Io volevo andare con meno gente al seguito, ma l’Orso ha insistito, non vuole lasciare qui nemmeno uno dei suoi sgherri! E io che pensavo che sarebbe stato un viaggio in intimità...”.

Questo era buono: Caimyr, detto l’Orso, era la guardia del corpo più fidata di Riderch e si occupava della sicurezza del secondogenito del regno fin da quando era ragazzo. L’Orso aveva alle sue dipendenze una decina di soldati, guardie selezionate e addestrate da lui personalmente, che si impegnavano a rispondere ai suoi ordini anche a costo della vita.

“Così sia”, sentenziò Tutgual. “Dove hai intenzione di andare? E per quanto tempo?”.

“Non ho una meta fissata, credo verso sud. Forse potrei fare una visita a Urbgen. Però ti chiederei una cosa, padre”.

“Dimmi”.

“Non ho detto a nessuno che starò via. Ti pregherei di non dirlo a nessuno, nemmeno ai miei fratelli, almeno per un po’. Vorrei veramente essere lasciato tranquillo con la mia famiglia finché non ci sarò”.

“Perché dovrei dirlo in giro? Non è affare degli altri. Se passerai a Cair Ligualid porterai i miei saluti a Urbgen. Ma ricordati figlio, la tua vita è qui”.

“Questo lo so. Quando ritornerò tutto sarà diverso”.

Dopodiché padre e figlio uscirono dalla stanza. Tutgual sentì un senso di pacificazione col figlio, per la prima volta dopo lungo tempo. 

martedì 2 aprile 2024

4 - RIDERCH

La fortezza di Alt Clut si stagliava su due cime rocciose che dominavano tutto il territorio circostante. Dal parapetto sulla cima più ampia, Riderch osservava l'ampia distesa d'acqua più in basso, dove il fiume Clut, da cui il regno prendeva il nome, scorreva aprendosi quasi come un lago verso la sua meta finale, il mare occidentale.

Mancava poco al tramonto quando si ridestò dai suoi pensieri: non poteva più tergiversare, era giunto il momento di muoversi. Si avviò verso il corpo centrale della fortezza, rispondendo con un cenno del capo al saluto di una guardia che era di turno sul parapetto. Poi accelerò il passo.

Attraversò un gruppo di case, abitate per la gran parte da suoi parenti. A quell'ora del giorno, pochissimi uomini erano già rientrati a casa, mentre le donne erano indaffarate a preparare il cibo della sera. Soltanto i bambini scorrazzavano in giro. Ma Riderch sapeva che colui che stava cercando era là.

Quando raggiunse la sala reale, le guardie lo riconobbero e, dopo averlo perquisito in fretta, lo lasciarono entrare. All'interno era proibito ogni tipo di arma, tranne quelle delle due guardie all'entrata. L'ampia sala era rischiarata da un piccolo fuoco al centro. Solo una persona era presente lì dentro: un anziano calvo, che indossava un pesante mantello di pelo. Sedeva dietro una tavola e stava imprimendo un sigillo su una tavoletta, sotto la luce di una torcia.

“Buonasera, padre”, disse Riderch. L’anziano alzò gli occhi, aggrottando le sopracciglia: “Guarda chi si vede”, rispose distrattamente, poi riabbassò gli occhi sul suo lavoro, tossendo forte.

Erano soli, tranne le due guardie all'entrata. Riderch aveva l'occasione di essere franco. “Vorrei parlarti”, disse.

“Parlare? E di che?”, fece suo padre, sempre occupato con le tavolette che aveva di fronte.

“Beh, è da parecchio che non ci vediamo, pensavo...”. Ma Riderch non riuscì a terminare la frase. Aveva sperato che fosse suo padre a iniziare la conversazione.

Passarono interminabili istanti di silenzio, poi l'anziano terminò di apporre un ultimo sigillo, tossì nuovamente e,  finalmente, alzò gli occhi, occhi di un azzurro penetrante. “Parliamo, allora. Dimmi chi era Coil Hen”, disse, il suo volto illuminato dalla luce della torcia.

“Come?”, fece Riderch. Doveva aver udito male: tutto si sarebbe aspettato, tranne una tale domanda. “Era... quello che prese il potere sulla Brittania del nord quando le legioni romane se ne andarono... o almeno così ci hanno tramandato. Intendi lui? Molto, ma molto tempo fa... Mi spiace di non saperne molto di più, ma se vuoi posso portarti notizie più recenti che riguardano Coil Cenet. A Peartoc dicono che è stato cornificato dalla moglie e che lui per tutta risposta...”.

Ma Riderch si fermò lì. Si era aspettato una minima reazione da parte di suo padre, ma l’anziano continuava a fissarlo col suo sguardo fulminante, e le sopracciglia ancora più aggrottate. Con tono di rimprovero rispose: “Brittania è il termine usato dai Romani. Qui da noi chiamiamo Albion la nostra terra. Mi sorprende che tu non abbia imparato nemmeno questo. E cosa successe ad Albion dopo la morte di Coil Hen?”.

Riderch sospirò profondamente. Non aveva idea di quale gioco stessero giocando, ma non aveva altra scelta che rispondere: “Albion, certo. Dopo la morte di Coil Hen venne divisa in piccoli regni spartiti tra i suoi discendenti e i suoi generali. È questo che ci hanno insegnato, giusto?”.

“E oggi, quanti sono questi regni?”, ribatté suo padre, dopo aver tossito ancora.

“Ora non ricordo di preciso! Padre, perché non arriviamo al punto?”.

“Sette sono i principali, Rheged, Ebrauc, Bryneich, Elmet, Gododdin, Dunoting, Deifr, senza contare i territori insignificanti di qualche capotribù che si fa chiamare re a sproposito...”.

“D’accordo, ma...”.

“E poi c’è Alt Clut...”. Un colpo improvviso di tosse interruppe a metà la frase dell'anziano. Riderch approfittò della pausa per afferrare uno sgabello e si mise a sedere. Ne aveva abbastanza di rimanere lì in piedi come un imbecille. Nel frattempo suo padre si era ripreso, e continuò: “Il nostro regno è unico, Riderch. Ai tempi di Coil Hen, su Alt Clut già regnava uno dei miei antenati, Ceretic. Molti clan sono nati e sono morti, signori della guerra si sono alternati al potere, ammazzandosi l’un l’altro. Ma la nostra dinastia vive qui fin dai tempi in cui su Albion c'erano ancora le legioni romane. La Rocca non è mai stata espugnata da tempi immemori, e sotto il mio regno e quello di mio padre Alt Clut è diventato un centro politico e commerciale di importanza strategica”.

Riderch non nascose un enorme sbadiglio, ma suo padre non desisté: “E ora, Riderch, sai che cosa sta succedendo?”.

“Che cosa sta succedendo?”. Era già stanco di quella conversazione.

“Che mentre la nostra stessa famiglia è a rischio, tu lasci tua moglie e i tuoi figli qui per passare il tuo tempo a bere in compagnia di prostitute...”.

Allora anche Riderch alzò la voce: “Ora basta padre, sono stanco che tutti mi parlino così!”.

“Non interrompermi!”, tuonò l'anziano, e questa volta la sua voce non consentiva repliche: era la voce di re Tutgual Tutclyd di Alt Clut. “Oggi ho ricevuto un'altra informativa da Din Eitin: mio cugino, re Clitno, scrive che gli Engle, o come cavolo si chiamano, stanno occupando nuove terre lungo la costa di Bryneich. Ritiene che presto una guerra sarà inevitabile”.

“Una guerra per riprendersi una fortezza insignificante come Din Guaire? A proposito, come ha fatto quel Morcant Bulc a perderne il controllo? E pensare che mio fratello ha il suo stesso nome, mi spiace per lui, ah ah!”, ribatté Riderch sarcastico.

Un altro accesso improvviso e violento di tosse colse re Tutgual. Riderch lo guardava pronto a intervenire, ma non sorpreso. Succedeva sempre più spesso che suo padre venisse colto da tosse violenta, e talvolta sputava sangue. Era un malanno che aveva attaccato i polmoni, diceva il medico di corte, che aveva somministrato pozioni risultate finora inutili.

Però, anche considerando la malattia, Riderch non capiva perché suo padre si sfogasse su queste cose con lui. Il primogenito, destinato a succedere al padre Tutgual, era suo fratello Morcant. Era sempre stato Morcant a essere investito degli incarichi più importanti, in preparazione alla successione al potere.

Riderch cominciava a provare una senso di disagio. Era venuto a parlare con suo padre per un motivo ben preciso, e le cose non stavano andando per il verso giusto, proprio per niente. 

sabato 30 marzo 2024

3 - LANGUORETH

Un gruppo di uomini a cavallo si avvicinava alla Rocca. Anche se dall'alto del parapetto non riusciva a identificare i loro volti, Languoreth sapeva che erano Riderch e i suoi compari. Dopo che furono entrati attraverso le palizzate esterne smontarono da cavallo, e li vide salire a piedi i gradini scavati nella roccia di Alt Clut. Dopo un po', Languoreth cominciò a udire le loro risate. Dovevano essersela spassata.

Andò alla sua abitazione e attese all'interno. I bambini stavano giocando a casa di Guenfron, per fortuna: non dovevano assistere a ciò che sarebbe avvenuto.

Riderch ci mise un po', ma alla fine arrivò. "Salve, moglie!", disse entrando e avvicinandosi. Languoreth lo schiaffeggiò in volto. Riderch subì l'affronto ma rispose sarcastico: "Ti amo anch'io, mia cara".

"Mi prendi per stupida?", ribatté Languoreth. "In quale bordello sei stato oggi?".

"Ora basta...".

"Basta cosa, basta dire la verità? Smettila di inventare storie, la verità è che passi il tempo a ubriacarti e in compagnia di puttane a Peartoc! I tuoi figli stanno crescendo, e cosa vedranno in te?".

"Vedranno chi sono! Loro padre, e un principe di Alt Clut!".

"Il principe-buono-a-nulla!".

Per un istante, Languoreth vide sul volto di Riderch un moto di rabbia, ma poi egli si voltò e si tolse l'abito madido di sudore, lasciandolo sul pavimento. Languoreth non aveva intenzione di lasciar cadere la cosa: "Le voci suoi tuoi bagordi hanno raggiunto anche tuo padre: me ne ha parlato oggi!".

Ora Riderch la fissò, preoccupato, e si sedette, ancora nudo, sul pelo di lupo che copriva il letto: "Cosa ha detto?", chiese.

"Perché non gli chiedi tu stesso?", gli rispose lei. "Mi ha detto che non vi parlate da secoli, e che ciò che sa su di te lo sente dalle chiacchiere che girano".

Languoreth vide che aveva colto nel segno: Riderch aveva un'espressione che raramente gli aveva visto sul volto (l'ultima volta era stata quando Acgarat era caduta dal parapetto e Riderch aveva pregato che non rimanesse storpia). Ma quasi subito si rese conto che il suo sguardo era più indagatore che preoccupato. Languoreth decise di tentare il tutto per tutto: "Riderch, da quando siamo sposati non abbiamo mai lasciato Alt Clut insieme. Andiamo da qualche parte lontano da qui per un po', tu, io e i bambini".

"Che?", rispose lui. "Ancora con la storia che qui viviamo in capanne primitive mentre la gente civilizzata dell'Elmet e del Rheged veste abiti di seta?".

"No, non hai capito nulla! Sono semplicemente stanca delle voci che girano e mi sento come in una prigione qui! Che cosa c'è di male a viaggiare un po' una volta ogni tanto?".

"C'è che la nostra vita è qui. La tua vita è qui, quale principessa di Alt Clut e madre", ribatté suo marito.

"In tal caso", rispose decisa Languoreth, calma ma livida di rabbia, "mi vedrò costretta a comportarmi come te e a trovarmi... dei favoriti, fregandomene delle voci calunniose che si spargeranno in Alt Clut fino agli orecchi di tuo padre".

Questa volta Riderch parve colpito, e quando parlò lo fece con un tono più accondiscendente: "Ma io ti amo davvero Languoreth. Se così non fosse, credi che avremmo potuto avere tre figli?".

"Allora dimostralo!", rispose Languoreth, con le lacrime agli occhi.

E dopo alcuni istanti in silenzio, finalmente Riderch si alzò, ancora nudo, e disse: "Va bene, parliamone".

mercoledì 15 maggio 2019

2 - FRATE LUCIUS

“Ma non sta a noi giudicare le risoluzioni di un concilio, tanto più che papa Ioannes III le ha riconfermate con zelo. Il nostro mondo è lontano dai concilii, la nostra missione è di coltivare gli insegnamenti di Cristo nella quotidianità e portare il Vangelo a sempre nuove popolazioni. Nella mia terra nativa, Hibernia, la civiltà non giunse né con le legioni romane, né attraverso le risoluzioni dei concilii. Giunse bensì con l’arrivo di evangelizzatori cristiani. In questo spicca l’esempio del santo vescovo Patricius, che un secolo fa diede un impulso straordinario al cristianesimo celtico sulle nostre isole britanne, i cui benefici si vedono ancor oggi. Sempre più numerosi, sapienti e retti, sono stati nel corso degli anni i monaci che hanno seguito il suo esempio, diffondendo la fede in tutta l’Hibernia. Oggi cenobii e monasteri sorgono ovunque in quella terra, dove la religione cristiana è ormai diffusa e praticata nella quotidianità dalla popolazione, che ha abbandonato quasi ovunque i vecchi rituali pagani”.


L’abate Colmcille si fermò, lo sguardo assorto. Era la prima volta che a frate Lucius capitava una cosa simile, scrivere un resoconto sotto dettatura da una voce che non leggeva da un testo, ma improvvisava al momento. Lucius ne era non solo sorpreso, ma estasiato. Questo abate Colmcille aveva il dono della chiarezza e il talento del narratore, oltre che una enorme sicurezza: quasi mai chiedeva di correggere ciò che aveva appena dettato.

“Continiuamo”, disse Colmcille, e proseguì con una voce impostata, da dettante:

Invece, oggi più che mai la terra di Brittania vive tempi infausti. Popolazioni barbare e miscredenti stanno colonizzando il lontano sud. E mentre ciò accade, i capi britanni continuano a guardare ai propri interessi di potere, scontrandosi tra loro anziché fare fronte comune contro i nemici pagani, che stanno riducendo la popolazione in servitù. Diceva bene il saggio Gildas nel suo sermone, già molti anni fa: ‘La Brittania ha dei re, eppure sono dei tiranni; ha dei giudici, eppure essi trascurano il loro dovere’”.

Colmcille si fermò ancora, e cambiò la sua voce nel tono normale colloquiale: “Aspetta un attimo, fratello Lukius, devo pensare”. L’abate parlava un latino grammaticalmente quasi perfetto, ma non molto fluente, e aveva un accento strano, per esempio non aveva ancora imparato a pronunciare perfettamente il nome Lucius. Insomma, si capiva che il latino non era la sua lingua nativa.

Ma frate Lucius era contento di essersi fermato all’abazia di Ioua. Quasi due mesi erano passati dal suo arrivo sull’isola, insieme a frate Leo. Il piano iniziale era di fermarsi per pochi giorni, per poi ritornare indietro al monastero di Beannchor. Ma Colmcille aveva mostrato loro l’abazia e la sua fornitissima biblioteca. Beh, chiamarla abazia sembrava una forzatura a Lucius: si trattava in realtà di alcune capanne sparse con tetti in legno e paglia. All’inizio, Lucius avrebbe voluto scappar via, ma dopo soli pochi giorni cambiò idea. L’abate era un uomo dalla profonda cultura e aveva collezionato un numero considerevole di manoscritti su una grande varietà di argomenti, il che aveva enormemente sorpreso frate Leo e frate Lucius. Inoltre, quel remoto avamposto sembrava piuttosto conosciuto in zona: lì venivano, come novizi o semplicemente come studenti di latino, i rampolli delle famiglie più in vista della regione, nonostante Ioua, o Hy come la chiamavano i nativi, non fosse un luogo facile da raggiungere. Lucius si era chiesto il perché, e poi l’aveva capito: Colmcille aveva un’istruzione molto vasta e una saggezza che poteva aver acquisito soltanto dopo esperienze di vita fuori del comune.

Sorpresi alla vista di una biblioteca così fornita di manoscritti che non avevano mai visti al Vivarium, frate Leo e frate Lucius avevano entrambi deciso di fermarsi per qualche mese, per esaminare e ricopiare almeno quelli più interessanti. Poiché la regola di Colmcille impediva di portare via i manoscritti dell’abazia, Lucius aveva alla fine deciso che doveva assolutamente ricopiare almeno degli stralci di uno in particolare: si trattava di una copia della Confessio del venerato vescovo Patricius. Lucius aveva letto voracemente diverse parti dell’opera, che gli aveva aperto una finestra sul mondo cristiano in quelle terre così a nord.

Anche frate Leo, dopo quasi due mesi, non era ancora ripartito da Ioua. Aveva avuto lunghe conversazioni con l’abate Colmcille e con gli altri monaci dell’abazia, e alla fine aveva deciso di spingersi, come diversi tra loro, all’interno di quella regione, dove a quanto pare c’erano vasti territori non civilizzati e popolati da pagani che dovevano essere convertiti al cristianesimo.
Nel frattempo Colmcille aveva chiesto a Lucius di assisterlo nella stesura sotto dettatura, come suo personale scrivano, visto che, oltre a frate Leo, Lucius era l’unico madrelingua latino presente al momento a Ioua. A quanto pare, era difficile per gli altri monaci scrivere velocemente sotto dettatura in latino perfetto, e inoltre Lucius poteva correggere automaticamente eventuali imprecisioni nel latino parlato di Colmcille. Prima di lasciare il Vivarium, Lucius aveva preso i voti, quindi era diventato un monaco a tutti gli effetti, degno di essere lo scrivano personale di un abate. Lucius aveva accettato con entusiasmo l’incarico impartitogli da Colmcille perché gli permetteva di rimanere a diretto contatto con una fucina culturale molto attiva, come aveva scoperto con grande stupore. Chi se lo sarebbe immaginato che all’estremo nord del mondo conosciuto potesse esistere questa realtà?

Colmcille, senza preavviso, riprese la dettatura:

A maggior ragione, il nostro compito rimane quello di evangelizzare le popolazioni pagane e pregare affinché il Signore illumini i sovrani britanni. Essi persistono nelle loro vecchie credenze druidiche, che non hanno portato loro alcun aiuto contro i demoniaci invasori. Il mio druido è Cristo: Lui solo ci può salvare. Possa il Signore mandarci un re cristiano e giusto, degno del compito di riportare pace e prosperità in Brittania. Preghiamo affinché...

La dettatura venne interrotta improvvisamente da un rumore: qualcuno bussava alla porta. Colmcille represse un moto d’ira: odiava essere interrotto quando era al lavoro. Il suo sguardo arrabbiato mise ancora più in evidenza le profonde rughe del viso, su cui spiccava un grande naso aquilino. A voce alta rispose: “Avanti!”, nella sua lingua nativa. Negli ultimi tre mesi, cioè da quando lui e frate Leo erano approdati prima in Hibernia e poi qui a Ioua, Lucius aveva studiato a fondo la lingua locale, perché diversi monaci, pur leggendo e recitando le preghiere in latino, non riuscivano a parlarlo fluentemente nella quotidianità, quindi era necessario imparare la loro lingua. Dopo tre mesi di permanenza tra l’Hibernia e Ioua, Lucius poteva ormai comprendere buona parte di quella lingua, e riusciva anche a parlarla un pochino, anche se non a scriverla: la lingua scritta in ogni monastero, anche in quella parte di mondo, era il latino, anche se lì si trattava di una forma piuttosto distorta di latino. Stando in Ioua, Lucius era venuto a conoscenza del fatto che la regione in cui si trovavano si chiamava Dál Riata e che vi viveva una popolazione che parlava la medesima lingua che in Hibernia.

Un monaco alto e magro aprì l’uscio: “Padre, perdona, so che non volevi essere disturbato. Ma il principe Áedán mac Gabráin è già arrivato, in anticipo sul previsto”. I nomi di quelle regioni erano molto strani, come lo era la loro lingua. Lucius aveva capito il nome di quel principe solo perché due giorni prima era accanto all’abate Colmcille quando egli aveva ricevuto l’epistola che annunciava la visita.
“Principe? Principe! Ah!”, sbottò Colmcille. “Suo padre era re molti anni fa, ma ora il re è suo cugino, quindi perché si fa annunciare come principe? Con i loro clan e sottoclan, perché comandano cento contadini e un branco di capre si fanno chiamare re e principi, che razza di idiozia! Beh, dal momento che è qui andiamo a sentire che vuole questo principe”.
Lucius rimase sorpreso dalla reazione dell’abate, soprattutto perché all’abazia c’erano capre e pecore donate ai monaci proprio dal re di Dál Riata, per fornire i monaci di latte, cibo e lana. Ma aveva imparato che Colmcille era un uomo molto orgoglioso. Un vecchio monaco l’aveva chiamato toiseach un giorno, e l’abate l’aveva rimproverato per averlo fatto: Lucius aveva appreso che quel termine significava ‘capo’ nella loro lingua, quindi padre Colmcille doveva essere stato una sorta di autorità nel luogo da cui proveniva, e non solo in quanto abate di Ioua.

Quale nuovo segretario personale dell’abate, Lucius seguì Colmcille. Uscirono dalla cella dell’abate. Fuori, un vento fresco soffiava dal mare, ma era una giornata soleggiata ed era piacevole camminare all’aperto.
I visitatori li stavano aspettando non lontano dall’edificio principale dell’abazia, che fungeva da chiesa (anche se a Lucius sembrava più una capanna che una chiesa come quelle in Italia). Erano tre guardie armate, un grosso omone barbuto che vestiva indumenti cuciti e comodi calzari, e un piccolo ragazzino mingherlino. Padre Colmcille si diresse a grandi passi verso di loro, seguito da Lucius e dall’altro giovane monaco.
Quando furono vicini, l’omone barbuto, il quale doveva essere senz’altro Áedán mac Gabráin (che nella lingua locale, avevano spiegato a Lucius, significava Áedán figlio di Gabrán), andò loro incontro sorridendo e tendendo entrambe le mani: “Venerabile Colmcille!”, disse nella sua lingua. Ovviamente non parlava latino. Doveva avere poco più di trent’anni e aveva un fisico forte e massiccio. Il suo volto era paffuto e sorridente.

Il monaco strinse le mani dell’ospite, ma alzò di scatto le cespugliose sopracciglia: “Non venerabile, non sono ancora morto, in grazia a Iddio. Ti trovo in forma, Áedán mac Gabráin. L’ultima volta che ci siamo visti eri al seguito di re Conall”.
L’omone, sempre sorridendo, rispose: “Si, allora mio cugino Conall venne qui in visita per assicurarsi che tu e i tuoi monaci foste forniti di tutto”. Poi si fece serio: “Questa volta invece, padre Colmcille, vengo qui con una richiesta da farti”.
Lucius stentava a seguire tutte le parole, ma riusciva a capire il senso generale del discorso.

L’abate invitò Áedán a camminare all’aperto, sul sentiero che collegava le varie capanne dell’abazia. Frate Lucius e l’altro monaco alto e magro li seguirono da vicino, mentre le tre guardie armate camminavano qualche passo più indietro. Il terreno dell’abazia era abbastanza brullo, senza molta vegetazione, ma i primi steli d’erba primaverile cominciavano a spuntare, dando un po’ di colore a quella terra desolata.
“Padre Colmcille, questo è mio figlio Artúr”, disse Áedán, scarmigliando i capelli biondo cenere del ragazzino mentre camminavano. “La ragione della mia visita riguarda lui: ti sarei grato, vener… padre Colmcille, se accettassi di istruirlo. Come sai io sono tra coloro che seguono la tua dottrina cristiana, e so che un’istruzione qui alla tua abazia farebbe di lui una persona migliore, molto di più che affidandolo ai nostri precettori dalriati. Credo che il cristianesimo diventerà importante in futuro anche nel nostro regno, come è già avvenuto nel resto di Ériu”.
Colmcille si mostrò sorpreso: “Mmh? Pensavo che la cosa più importante per i figli di rango della Dál Riata fosse diventare buoni combattenti”, rispose in tono brusco.
Áedán questa volta guardò Colmcille negli occhi, mise da parte la sua aria bonaria e si fece serio: “Verrà il tempo anche per quello. Ma Artúr merita una buona preparazione. È un ragazzino sveglio e può avere un grande futuro davanti”.
“Il ragazzo non è il tuo solo figlio, vero?”, chiese Colmcille.
“Oh no, padre, è il più grande di cinque figli maschi, ah ah! Se lo vorrai accettare e se farà bene qui, potrei considerare di mandarti qualche altro figlio in seguito. Chissà, magari uno di loro deciderà di diventare un monaco!”.

Colmcille non sembrava persuaso. Il discorso poi si spostò sulla politica dalriata e i due interlocutori cominciarono a usare un linguaggio così specifico che Lucius non riuscì più nemmeno a capire il senso generale di ciò che dicevano. Così si dedicò a guardare di sottecchi il bambino, che seguiva il padre un passo dietro di lui. Era magro e un po’ pallido, ma aveva uno sguardo intelligente e concentrato: era chiaro che stava seguendo per filo e per segno la discussione che il padre stava avendo con Colmcille. Ma non era un po’ troppo giovane per essere mandato a Ioua?

Ora stavano inerpicandosi su per la collina. Dopo un po’, Colmcille si fermò e guardò il ragazzo: “E a te, Artúr, interesserebbe studiare qui?”, gli chiese. Parlò con parole semplici, come ci si rivolge ai bambini, e grazie a questo Lucius riuscì a capire.
“Si”, rispose serio Artúr.
“E come mai?”.
“Perché voglio diventare saggio come i re”.
“Ma lo sai che i re spesso non sono né istruiti né saggi?”.
Artúr rispose sicuro: “Si, ci sono anche i re cattivi. Ma io intendo i re che vogliono il bene di tutti, non solo il loro potere”.
Colmcille lo fissò. Poi chiese: “Áedán, la madre di Artúr è britanna, vero?”.
Áedán sembrò spiazzato da questa domanda: “Si, padre Colmcille, mia moglie è figlia di re Tutgual Tutclyd di Alt Clut. Mia madre stessa era una zia di Tutgual. Spesso avvengono matrimoni tra noi e donne britanne: rafforzano le tregue, evitano guerre…”.
Colmcille commentò tra sé e sé: “Quindi il ragazzo ha per tre quarti sangue britanno”. O almeno questo sembrò di udire a Lucius, che gli era proprio accanto.
“Non capisco, padre, cosa c’entra questo?”, fece Áedán. Sembrava preoccupato, come se si fosse reso conto di aver detto troppo.

Il vento soffiava più forte ora, in cima alla collina.
Dopo un momento in silenzio, Colmcille parlò: “È vero, Áedán mac Gabráin, qui tuo figlio può ricevere un’ottima istruzione. I nostri monaci sono saggi, acculturati, e uomini retti. Frate Lukius qui, per esempio, il mio personale scrivano, viene da un importante monastero vicino a Roma, il cuore della cristianità, e il latino è la sua lingua nativa. Può essere un ecellente tutore per tuo figlio Artúr”.

venerdì 8 febbraio 2019

1 - LEO

Quando il comandante della nave lo fece chiamare, era il meriggio di una giornata nuvolosa e fredda. A quanto pareva, a queste latitudini nel nord la primavera non esisteva. Leo scrutava l’orizzonte di un mare grigio come il cielo, senza gabbiani, e si chiedeva in quale recondito angolo del mondo stessero andando a finire.
Raggiunse il comandante a prua. Questi lo accolse col suo grande sorriso, che gli metteva in bella mostra un buco da dove mancavano un paio di denti. Era un omone possente dalla pelle scura, brutto d’aspetto, ma che vestiva stoffe piuttosto costose, a giudizio di Leo, e sapeva come trattare con la gente: “Frate, siamo in dirittura d’arrivo”. L’omone, di cui Leo non aveva capito bene il nome (suonava qualcosa di simile a Zazo), gli indicò un punto in lontananza nella direzione della navigazione.
Un profilo più grigio del mare e del cielo mostrava la presenza di terraferma. “Vedi quella striscia di terra? Alla sinistra, anche se non si vede, c’è l’isola che cerchi”, disse Zazo col suo accento orribile.

L’isola di Ioua, o di Hy, come la chiamavano nella lingua di quella regione del mondo. Leo aveva avuto il tempo di documentarsi, per quel poco che gli era stato possibile, sull’abazia presente su quella isola sperduta. Durante l’ultimo scalo di quel viaggio infinito, aveva avuto modo di incontrare l’abate Comgall del monastero di Beannchor, sulla costa nord orientale dell’Hibernia.
L’abate Comgall gli aveva detto di conoscere bene il fondatore dell'abazia sull’isola di Ioua: era un monaco conosciuto da tutti come Colm Cille, che nella loro lingua significava Colomba della Chiesa. Se ne era andato in eremitaggio a nord, verso i confini del mondo conosciuto, per espiare un qualche peccato, ma l’abate Comgall non aveva voluto dire di più.

Leo era rimasto molto ben impressionato dal monastero di Beannchor. “L’Hibernia è oggi una fucina del cristianesimo, e il nostro monastero è uno dei centri più fecondi”, gli aveva detto compiaciuto l’abate Comgall. Leo aveva discusso a lungo con lui sulla situazione del cristianesimo in Hibernia, e si era convinto di aver fatto bene a fare questa scelta: sempre più numerosi i giovani del luogo andavano a studiare nei monasteri, alcuni ammirati dagli esempi di santi uomini e donne che li avevano preceduti, altri per avere un’opportunità di studiare e sfuggire alla povertà, altri perché provenienti da famiglie benestanti che mandavano il figlio a crearsi un ruolo nei monasteri più importanti e di prestigio. La comunità del monastero di Beannchor era molto grande.
Su una cosa però la previsione di Cassiodorus non era stata corretta: le tradizioni e gli stili di vita di quella gente non assomigliavano affatto a quelli romani. Beannchor era un centro culturale importante in quella regione, ma, esattamente come gli altri monasteri che aveva visto in Hibernia, consisteva in sostanza di diversi edifici in legno, la maggior parte di essi in forma di capanne circolari con tetti in paglia e frasche: un aspetto che certamente non era ciò a cui Leo era abituato nei monasteri in cui era stato in Italia. Anche le persone vestivano in fogge molto diverse da quelle romane, e Leo apprese che perfino all’interno del monastero venivano ancora conservate usanze dalle tradizioni pagane dell’Hibernia.
Un altro aspetto a cui Leo non si era ancora abituato era la lingua parlata in Hibernia. Gli ci era voluto oltre un mese di dura pratica quotidiana, durante il loro viaggio per i monasteri d’Hibernia, per afferrare almeno le base di quello strano linguaggio. I monaci là parlavano latino, ma non era la loro lingua materna e il loro accento spesso era difficile da capire. Inoltre, Leo voleva parlare anche con la gente locale che non parlava latino. I nomi delle persone e dei luoghi erano anchessi molto strani, con suoni che Leo non aveva mai udito. Per esempio, Hibernia veniva chiamata Ériu nella loro lingua, e Leo non capiva come mai il nome latino fosse così diverso da quel suono.
Invece il suo compagno di viaggio, frate Lucius, non sembrava per nulla ben impressionato dal posto, ma stava imparando abbastanza bene il linguaggio parlato in Hibernia, e Leo spesso faceva affidamento su di lui quando si trattava di comprendere e di parlare con la gente locale.

Padre Comgall li aveva esortati a rimanere a Beannchor come insegnanti di latino. A Leo ciò faceva molto piacere, anche se prima o poi avrebbe dovuto parlare con Comgall riguardo... riguardo ciò che non aveva confidato nemmeno a frate Lucius. Ma una cosa alla volta. Prima rimaneva da compiere l’ultimo atto della missione: portare alcune copie del Vivarium anche alla sperduta abazia di Ioua.
“Dalle voci che mi sono giunte, assomiglia più a un piccolo eremo che a un vero monastero come questo”, gli aveva detto l’abate Comgall, non senza una punta d’orgogliosa cattiveria, era sembrato a Leo. Il suo compagno in questo lunghissimo viaggio dal Vivarium fin qui, frate Lucius, gli aveva chiesto se poteva rimanere al monastero di Beannchor ad aspettarlo, mentre lui compiva l’ultimo tratto fino a Ioua. Leo aveva quasi acconsentito, ma poi ci aveva ripensato. La missione che Cassiodorus aveva loro affidato era di visitare diversi monasteri, tra cui, l’ultimo rimasto, anche quello di Ioua. Avrebbero dovuto finire questa prima parte della missione insieme, dopodiché sarebbero stati liberi di stabilirsi in uno dei monasteri a loro scelta, tra quelli che richiedevano insegnanti di latino. Ma prima dovevano recarsi fino a Ioua insieme.

Ora, guardando il profilo dell’isola all’orizzonte, dalla prua della nave, a Leo tornarono in mente le parole dell’abate Comgall. Come era possibile che in quelle lande sperdute potesse sorgere un’abazia? Leo cercò di aguzzare la vista nella direzione indicatagli da Zazo (o come diavolo si chiamava), ma non vide ombra di alcuna costruzione. Una manata sulla schiena lo fece sobbalzare, e Zazo esplose in una sonora risata: “Frate, non sperare di vedere niente da qua. Quegli eremiti vivono in delle specie di piccole celle, ah ah ah! Voi frati di Roma siete abituati ad altro, ah ah ah!”.

sabato 19 gennaio 2019

PROLOGO

La giornata era soleggiata. Luciano era uscito ai primi bagliori dell’aurora per la sua consueta passeggiata mattutina, vestito con la tunica invernale; ma ora che il sole era alto sull'orizzonte, egli cominciava già quasi a sudare. Prometteva di fare insolitamente caldo per una giornata di fine novembre. Ciò non dispiaceva a Luciano: amava il caldo. Ogni mattino, di buonora, usciva per meditare nella natura. Quale spettacolo è questo creato, si stupiva sempre, mentre sedeva su una roccia ad ammirare l’alba o a osservare il volo di un nibbio.

Era ora di ritornare al Vivarium: lo attendevano le occupazioni della giornata. Doveva riprendere la trascrizione dei frammenti del De hortis di Gargilio Marziale dal punto in cui si era interrotto la sera prima. Avviandosi verso il ritorno, Luciano si mise a ragionare tra sé e sé. Qual era il metodo secondo cui un’opera di un tal genere veniva affidata a un copista piuttosto che a un altro? Viveva al monastero da un paio d’anni e solo da pochi mesi gli era stato assegnato il ruolo di copista: l'abate lo aveva fatto chiamare e gli aveva detto che era soddisfatto di come si era comportato finora, e quindi gli aveva comunicato che gli avrebbe affidato il delicato compito di ricopiare manoscritti del passato da aggiungere alla biblioteca del Vivarium. Negli ultimi cinque mesi gli erano stati assegnati frammenti di opere sempre riguardanti l’agricoltura. Il De hortis, a cui Luciano si era dedicato da pochi giorni, era l’incarico più consistente che gli fosse capitato finora, e si trattava comunque di un modesto estratto, non di un’opera completa. Ma cosa pretendeva, dopotutto? Era un novizio, in un cenobio rinomato in tutta la provincia. È vero che proveniva da una famiglia benestante che gli aveva permesso una buona istruzione, ma qui tra gli altri confratelli era uno qualunque, anzi l’ultimo arrivato. Luciano si indispettì per la sua stessa presunzione, e anche per il suo cervello che non smetteva mai di pensare. Glielo diceva spesso sua madre: “Tu pensi troppo, figlio mio, e chi pensa troppo muore prima del tempo”. Ma non ci poteva fare nulla: anche quando avrebbe voluto riposare, la sua mente non ne voleva sapere e continuava a vagare da una riflessione all’altra.

Doveva essere già l’ora Terza inoltrata quando rientrò al Vivarium. Sarebbe arrivato in ritardo alla preghiera, pensava mentre si affrettava per i corridoi, quando, svoltato un angolo, andò quasi a cozzare contro un confratello. Era il grosso Pelagio: “Luciano”, lo apostrofò col suo alito che sapeva di cipolla, “l’abate ha richiesto la presenza di tutti nel salone centrale”.
“Ma come? E la preghiera dell’ora Terza?”
“Per quest’oggi è sostituita da una assemblea generale. Ormai dovrebbero essere quasi tutti là”, concluse Pelagio con tono di stizza, e si allontanò con passo pesante in direzione del salone centrale, senza aggiungere altro.
Ciò suonò molto strano a Luciano: non gli era mai capitato da quando era al monastero.

Nel salone centrale effettivamente l’assemblea era già cominciata e tutti i confratelli dovevano essere presenti, a giudicare dal colpo d’occhio. Molti erano seduti, qualcuno in piedi perché non c’erano abbastanza panche. La sala era gremita.
Lucius lasciò che Pelagius se ne andasse a trovarsi un posto, e si fermò accanto a Genesius, che stava in piedi accanto all’ingresso, intento ad ascoltare l’Abate che stava parlando.
“Ma cosa succede?”, sussurrò Lucius a Genesius.
“L’imperatore è morto”, rispose questi laconico, senza distogliere la sua attenzione da ciò che stava dicendo l’Abate.
L’imperatore Iustinianus il Grande, quindi era questo il motivo dell’assemblea? Ma Iustinianus era già molto anziano, era prevedibile che prima o poi morisse. Lucius mise a tacere il suo cervello e si mise ad ascoltare l’Abate.

“E quindi, ora la situazione dell’Italia diventa imprevedibile. Tutto dipenderà dalle decisioni politiche del nuovo imperatore”. L’Abate parlava lentamente e con voce grave. Era anch’egli molto anziano. Una barba bianca gli incorniciava il mento, qualche sparuto capello canuto spuntava dal cranio quasi calvo. “Temo, cari confratelli, che siamo giunti a un momento epocale in cui, tra pochi anni, nulla di ciò che abbiamo sempre conosciuto sarà più come prima”. Un brusio si levò dall’assemblea. L’Abate alzò leggermente il tono di voce: “Non ho intenzione di destare preoccupazione, ma questa è una convinzione che ho da anni, fin da quando decisi di fondare questo monastero. Sapete tutti qual è la missione del nostro lavoro: preservare per le generazioni future il sapere accumulato dai nostri predecessori. Ma forse pochi di voi sanno qual è il vero motivo che mi ha spinto a dedicarmi a questa missione: il convincimento che la società che ci hanno lasciato i nostri padri sta morendo, e che presto i nostri figli non si ricorderanno più nulla di chi sono e da dove vengono. Guardate alla situazione dell’Italia da molti anni ormai: un territorio distrutto dalla guerra, devastato da carestie e pestilenze, in preda a un declino mai visto prima nella pur lunga storia di Roma. E guardate a Roma stessa: un tempo capitale dell’impero, oggi è una città semidistrutta e in via di spopolamento. E le truppe imperiali che sono venute a riannettere l’Italia all’impero...”. l’Abate si interruppe per bere un sorso d’acqua da una tazza appoggiata sul desco di fronte a lui. Il brusio ora era cessato del tutto e il silenzio era totale. Tutti temevano la conclusione della frase che l’anziano aveva lasciato in sospeso.

l’Abate bevve lentamente, poi ripose la tazza sul desco. Si passò una mano rugosa sul volto, e fissò lo sguardo sui suoi confratelli. Uno sguardo orgoglioso e penetrante. E all’improvviso, Lucius non vide più davanti a sé semplicemente l’Abate, ma Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator.

“Voi sapete la mia storia e da dove vengo”, riprese Cassiodorus. Lucius veramente non sapeva quasi nulla di lui, se non qualche racconto sparso udito dalle chiacchiere tra confratelli. Ciò di cui si era reso conto invece era che l’Abate non aveva terminato la frase precedente. “Sapete anche che sono stato a Constantinopolis alla corte di Iustinianus; e, confratelli, posso dire che l’esercito e i funzionari imperiali di Constantinopolis... non sono romani”. Questa volta il silenzio era tanto denso da poterlo quasi toccare. Venne interrotto solo da uno scoppio di tosse improvvisa di un anziano confratello, che cercò invano di smettere di tossire, diventando paonazzo. Perfino Lucius, anche se non capiva perché l’esercito imperiale dell’impero romano non era da considerarsi romano, si rese conto che ciò che aveva appena implicato l’Abate significava dire in sostanza che l’Italia era occupata da un esercito straniero.

L’Abate proseguì imperterrito: “Ho convocato questa assemblea per dire a voi tutti, confratelli, che qualsiasi altro cambiamento dovesse avvenire nella nostra tormentata penisola, con l’aiuto del Signore in questo monastero siamo tenuti a proseguire la nostra opera e a far sì che nulla ci distolga dal preservare la nostra cultura per le generazioni future”.
E con questo, nel silenzio generale, l’Abate finì di parlare. Sussurrò qualcosa al suo assistente, il confratello Marcellus. Il quale prese la parola per comunicare alcune direttive della giornata. Lucius vedeva chiaramente negli sguardi dei confratelli una certa inquietudine. Probabilmente, come lui, anche loro si aspettavano di sentire qualcosa di più dall’Abate, che spiegasse meglio cosa aveva inteso con quelle brevi parole. Ma forse era troppo vecchio e non poteva parlare a lungo, e da quel poco che Lucius sapeva, Cassiodorus non era uno dai grandi discorsi, preferiva mettere per iscritto le sue idee.

Così, una volta che Marcellus ebbe terminato con le direttive per la giornata, l’assemblea si sciolse e Lucius ritornò nella propria cella per togliersi la tunica pesante e riposarsi qualche minuto, prima di avviarsi verso lo scriptorium. Non riusciva a smettere di pensare al discorso dell'Abate, si chiedeva se ci fosse in esso qualche significato che gli era sfuggito.
Era disteso sul proprio giaciglio, meditando, quando qualcuno all’ingresso della sua cella chiese il permesso d’entrare. “Entra pure”, rispose Lucius.
Sull’uscio comparve Marcellus: “Lucius, l’Abate desidera vederti. Ti sta già aspettando”.
Il giovane novizio rimase basito. “L’Abate? Ma... ha detto per quale motivo?”. L’unica occasione in cui Cassiodorus gli aveva parlato personalmente, in due anni, era stata quella volta di cinque mesi prima, quando gli aveva comunicato brevemente il suo nuovo incarico di copista.
“Ti spiegherà tutto lui di persona”, rispose Marcellus. “Quando sei pronto puoi recarti direttamente nel suo studio”.

Poco dopo, Lucius entrava nello studio dell’Abate per la prima volta. Era nell’ala sud del monastero, e varcata la soglia la prima cosa che si notava era la luce: in una parete si apriva una vetrata, da cui filtrava la luce del sole. La temperatura era sensibilmente più tiepida lì dentro, in confronto ai freddi corridoi. Era una stanza ampia, ma sembrava piccola perché c’erano volumi di papiro dappertutto: accatastati sulle mensole, appoggiati sullo scrittoio dell’Abate, perfino sul pavimento, negli angoli della stanza. Insieme all’odore di papiro, Lucius annusava nell’aria profumo di erbe aromatiche. L’anziano però non stava né leggendo né scrivendo: sembrava intento in una discussione con il confratello Leo, seduti uno accanto all’altro. Entrambi alzarono lo sguardo, quando Marcellus introdusse Lucius nella stanza.

“Salve Lucius, siedi qui con noi”, disse l’Abate. “Marcellus, tu puoi andare, ti farò chiamare dopo”. Lucius non sapeva davvero cosa aspettarsi, non aveva mai avuto contatto diretto con Cassiodorus, e nemmeno con il confratello Leo, che era della generazione precedente alla sua.
Mentre Marcellus usciva dalla stanza, Lucius si sedette su uno sgabello e l’Abate gli rivolse la parola: “Come ti trovi nel nuovo ruolo, Lucius?”. Lo sguardo di Cassiodorus era inespressivo, e ciò rese Lucius nervoso. Oh no, devo aver fatto qualche terribile errore di copiatura, pensò.
“Abate, per me è un onore avere un incarico di copista e cerco di metterci tutto l’impegno e l’abilità di cui dispongo...”. Lucius esitò a continuare.
“Ma?...”, lo incalzò l’Abate.
Lucius rimase per un attimo interdetto, poi prese coraggio: “Mi stavo chiedendo, per curiosità, se ci sia un motivo per cui mi siano stati affidati manoscritti sempre inerenti all’agricoltura?”.
Ora a Lucius sembrò di vedere le rughe agli angoli degli occhi dellAbate piegarsi come in una sorta di sorriso, ma forse si sbagliava. “Beh, in realtà il motivo c’è”, rispose CassiodorusDi norma, cerchiamo di dare i medesimi argomenti al medesimo copista, perché ogni campo del sapere ha una terminologia specifica, e si richiede che ogni copista padroneggi bene tutti i termini di uno specifico campo. Nei manoscritti su cui hai lavorato finora non ti è ancora capitato, ma spesso nei manoscritti che prendiamo a riferimento ci sono dei passi illeggibili. A volte noi dobbiamo assumere la responsabilità, durante la ricopiatura, di riempire gli spazi illeggibili con i termini che riteniamo più adatti. Ma c’è un motivo ancora più importante: quando traduciamo opere dal greco, dobbiamo avere un’estrema padronanza del linguaggio e di termini anche specialistici, per fare una buona traduzione. Lucius, tu sei molto giovane, il più giovane copista qui. Perdonami se il mio atteggiamento ti può sembrare condiscendente, mi viene naturale, perché dopotutto la tua età è appena un quinto della mia! In questi mesi ti sono stati affidati manoscritti sull’agricoltura perché da molti confratelli quel campo è ritenuto poco complicato, adatto a far fare esperienza a un novizio. A mio modesto personale parere, ci sono molti più termini specialistici e complessi nell’agricoltura che in altri campi del sapere, ma io non ho l’ultima parola su tutto”.
Lucius era rimasto a bocca aperta. Si aspettava di venire rimproverato per chissà cosa, invece l’Abate aveva dissipato tutti i suoi dubbi in un colpo solo.

Ma l’Abate non aveva finito di parlare. Assumendo un atteggiamento più serio, si schiarì la voce arrochita e bevve lentamente da una tazza poggiata sulla tavola. Dopodiché riprese: “Comunque, vorrei introdurti al discorso che stavo avendo con frate Leo. Come ho detto a lui, ho ricevuto una missiva proveniente da un monastero molto, molto lontano da qui. In questa missiva, il loro abate mi chiede la disponibilità di inviargli alcune delle nostre ricopiature, per arricchire la loro biblioteca. Come sapete, non mi sono mai sottratto alle opportunità di scambio con altri centri culturali. A maggior ragione alla luce di ciò che vi ho detto poc’anzi questa mattina, ritengo che sia nostro dovere diffondere più che possiamo il sapere di cui siamo in possesso, finché le condizioni ce lo consentono: non sappiamo cosa ci aspetterà nel tempo a venire. Sei d’accordo, Lucius?”.
Lucius non capiva perché l’Abate stesse dicendo questo a lui, però di una cosa era sicuro: “Si, sono d’accordo, Abate”.
Cassiodorus non batté ciglio e riprese la parola: “Bene. Ho incaricato frate Leo, e lui ha accettato, di trasportare alcune preziose copie ad alcuni monasteri che si trovano in Hibernia, una terra dove oggi a quanto pare il cristianesimo fiorisce di più che qui nella martoriata Italia. Nella missiva hanno fatto richiesta anche di un paio di monaci versati nelle lettere, per poter insegnare la lingua latina ai giovani del luogo che vanno a studiare ai loro monasteri. Anche questa è un’opportunità di scambi culturali da non lasciare cadere nel vuoto, a mio avviso. Frate Leo ha accettato di stabilirsi là per almeno uno o due anni, come insegnante di latino”.

Mentre ascoltava l’Abate, Lucius non poté fare a meno di lanciare furtivamente qualche sguardo al confratello Leo, che da quando era entrato non aveva ancora spiccicato parola. Doveva avere intorno ai quarant’anni, a giudicare dalle rughe attorno agli occhi e dall’atteggiamento posato, da uomo maturo. La nera barba che gli tingeva il viso era curata, e sul suo volto era stampato una sorta di pacato sorriso. Lucius non riusciva a spiegarsi come mai uno accettasse di buon animo l’idea di andare in una terra fredda e selvaggia all’estremo nord del mondo conosciuto, se aveva la possibilità di svolgere l’attività che gli piaceva nella calma e calda regione dei Bruzi, al centro del Mediterraneo.
Il giovane si era distratto con questi pensieri, ma tornò immediatamente alla realtà quando udì l’Abate dire: “...e quindi ho pensato che tu potresti essere un ottimo compagno di frate Leo. Sei molto versato nelle lettere grazie a una buona educazione, e con la tua giovanissima età hai le energie e l’entusiasmo adatti per una missione come questa. Potresti imparare moltissimo da una simile esperienza, e ritornare più maturo e ricco interiormente”. L’Abate lasciò per qualche istante sedimentare le sue parole, e poi, guardando in faccia Lucius, gli chiese: “Cosa ne pensi?”.
Lucius tornò a lanciare uno sguardo fuggevole al confratello Leo, il quale da parte sua continuava a osservarlo con un sorriso divertito, e poi si volse nuovamente a Cassiodorus. Deglutì e cercò di organizzare i pensieri mentre parlava: “Abate, questa è una grossa notizia per me... Non sapevo nemmeno che intrattenessimo relazioni con monasteri così lontani nel mondo... Io non sono mai stato fuori da questa regione prima d’ora... Vorrei ragionarci su e decidere con calma”.
Sembrava che l’Abate si aspettasse esattamente questo, perché rispose: “Certamente. Oggi ho voluto soltanto comunicarti questa prospettiva, poi la decisione spetterà a te, e qualsiasi decisione prenderai, sarà quella giusta, non preoccuparti. In ogni caso, con l’appropinquarsi dell’inverno non è ragionevole fare un viaggio via nave adesso: frate Leo partirà fra tre o quattro mesi, e questo ti darà giusto il tempo necessario per prendere i tuoi voti e diventare un confratello a tutti gli effetti. In ogni caso io confido in questa missione perché, come vi ho detto questa mattina in assemblea, abbiamo la necessità di tessere una tela la più fitta possibile con altri centri culturali, vicini e lontani, in questa epoca in cui non si presagisce alcunché di buono”.

Ora Lucius non poté fare a meno di chiedere: “Abate, se posso chiedere, cosa intendevi nel tuo discorso oggi in assemblea? Riguardo il fatto che a Constantinopolis non sono romani, e che tutto cambierà?”.
Cassiodorus sembrò compiaciuto di quella domanda: “Vedi, Lucius, la risposta non è facile, ma è importante. Cercherò di spiegare meglio di quanto abbia fatto prima questa mattina. Frate Leo, anche tu non hai mai sentito questa storia. La nonna paterna di mio padre nacque a Roma al tempo in cui era imperatore Theodosius il Grande. Morì quasi centenaria, e tra i miei primi ricordi rammento le storie che mi raccontava riguardo la sua infanzia a Roma, negli anni precedenti alle scorrerie di Alaricus. A quel tempo lei era solo una ragazzina e ignorava le difficoltà che l'Impero stava attraversando. Mi raccontò che nella sua infanzia Roma era ancora una città viva, con i suoi enormi edifici e monumenti, e le sue tradizioni e stili di vita ancora intatti da secoli. Dopo che lei morì, crebbi con l'aspirazione di salvare e rivitalizzare quelle tradizioni e stili di vita, il nostro stile di vita. Per anni pensai che fosse ancora possibile, ma prima la guerra, e poi la mia permanenza a Costantinopolis, mi hanno convinto che le nostre antiche tradizioni romane sono andate per sempre”.
Lucius guardò frate Leo: non stava sorridendo ora, era seduto sul bordo dello sgabello e aveva uno sguardo teso.
“E sapete perché?”, continuò Cassiodorus. “Perché il potere imperiale è concentrato nella parte orientale dell'Impero da troppo tempo. Per troppi anni siamo stati alla periferia. A Constantinopolis parlano greco nella vita di tutti i giorni, e hanno le loro tradizioni locali e una loro diversa cultura. Per gli imperatori, oggi l’Italia è un territorio lontano e difficile, da tenere solo per l’onore e la stabilità dell’Impero. Presto gli ufficiali imperiali, come Narses e i suoi successori, imporranno anche qui la lingua greca. E anche se questo non avverrà, le antiche tradizioni romane vanno comunque poco a poco scomparendo. La gente vive sempre di più nelle campagne, dopo che molte città sono state distrutte o semidistrutte durante la lunga guerra. A Roma, il Senato è ormai solo un fantasma della gloriosa istituzione che fu un tempo, praticamente svuotato ormai dei suoi poteri e prerogative. La capitale italiana, Ravenna, sta venendo ricostruita come una città orientale ed è ormai quasi più simile a Constantinopolis che a una città latina. Questi sono solo alcuni dei punti di cui volevo discutere, ma riassumono abbastanza la situazione”.

L’Abate era visibilmente stanco, ma non aveva finito: “E quindi torniamo al punto, perché andare fino in Hibernia? Perché in quelle terre sono ancora interessati a preservare la nostra cultura latina. Non solo là, comunque. Sono anche in contatto con qualche monastero in Gallia, per esempio. Dovunque la lingua latina e il nostro stile di vita sono ancora vivi, dobbiamo aiutarli a sopravvivere. In un certo senso ti invidio, frate Leo: viaggerai verso una terra misteriosa e tuttavia oggi ancorata alla nostra eredità latina; una terra strana e così diversa dalla nostra, e tuttavia piena di nuova energia positiva. In quelle terre sarai probabilmente testimone di qualcosa di unico, forse perfino dell’inizio di una nuova epoca”.

Frate Leo sembrava ora totalmente affabulato da quelle parole. E, decisamente, Lucius non era più così sicuro che avrebbe rifiutato quella proposta.