“Ma non sta a noi giudicare le risoluzioni di un concilio, tanto più che
papa Ioannes III le ha riconfermate con zelo. Il nostro mondo è lontano dai concilii, la nostra missione è di coltivare gli
insegnamenti di Cristo nella quotidianità e portare il Vangelo a sempre nuove
popolazioni. Nella mia terra nativa, Hibernia, la civiltà non giunse né con
le legioni romane, né attraverso le risoluzioni dei concilii. Giunse bensì con
l’arrivo di evangelizzatori cristiani. In questo spicca l’esempio del santo vescovo
Patricius, che un secolo fa diede un impulso straordinario al cristianesimo
celtico sulle nostre isole britanne, i cui benefici si vedono ancor oggi.
Sempre più numerosi, sapienti e retti, sono stati nel corso degli anni i monaci
che hanno seguito il suo esempio, diffondendo la fede in tutta l’Hibernia. Oggi
cenobii e monasteri sorgono ovunque in quella terra, dove la religione
cristiana è ormai diffusa e praticata nella quotidianità dalla popolazione, che
ha abbandonato quasi ovunque i vecchi rituali pagani”.
L’abate Colmcille si fermò, lo sguardo assorto. Era la prima volta che a frate Lucius capitava una cosa simile,
scrivere un resoconto sotto dettatura da una voce che non leggeva da un testo,
ma improvvisava al momento. Lucius ne era non solo sorpreso, ma estasiato. Questo
abate Colmcille aveva il dono della chiarezza e il talento del narratore, oltre
che una enorme sicurezza: quasi mai chiedeva di correggere ciò che aveva appena
dettato.
“Continiuamo”, disse
Colmcille, e proseguì con una voce impostata, da dettante:
“Invece, oggi più che mai la terra di Brittania vive tempi infausti.
Popolazioni barbare e miscredenti stanno colonizzando il lontano sud. E mentre ciò
accade, i capi britanni continuano a guardare ai propri interessi di potere,
scontrandosi tra loro anziché fare fronte comune contro i nemici pagani, che stanno riducendo la popolazione in servitù. Diceva bene il saggio
Gildas nel suo sermone, già molti anni fa: ‘La Brittania ha dei re, eppure sono
dei tiranni; ha dei giudici, eppure essi trascurano il loro dovere’”.
Colmcille si fermò ancora, e cambiò la sua
voce nel tono normale colloquiale: “Aspetta un attimo, fratello Lukius, devo
pensare”. L’abate parlava un latino grammaticalmente quasi perfetto, ma non
molto fluente, e aveva un accento strano, per esempio non aveva ancora imparato
a pronunciare perfettamente il nome Lucius. Insomma, si capiva che il latino non
era la sua lingua nativa.
Ma frate Lucius era contento di
essersi fermato all’abazia di Ioua. Quasi due mesi erano passati dal suo arrivo sull’isola,
insieme a frate Leo. Il piano iniziale era di fermarsi per pochi giorni, per poi ritornare indietro al monastero di Beannchor. Ma Colmcille
aveva mostrato loro l’abazia e la sua
fornitissima biblioteca. Beh, chiamarla abazia sembrava una forzatura a Lucius: si trattava in realtà di alcune capanne sparse con tetti in legno e paglia. All’inizio, Lucius avrebbe voluto scappar via, ma dopo soli pochi giorni cambiò idea. L’abate era un uomo dalla profonda cultura e aveva collezionato un numero considerevole di manoscritti su una grande varietà di argomenti, il che aveva enormemente sorpreso frate Leo e frate Lucius. Inoltre, quel remoto avamposto sembrava piuttosto conosciuto in zona: lì venivano, come novizi o semplicemente come studenti di latino, i rampolli delle famiglie più in vista della regione,
nonostante Ioua, o Hy come la chiamavano i nativi, non fosse un luogo facile da raggiungere. Lucius si era chiesto il
perché, e poi l’aveva capito: Colmcille aveva un’istruzione molto vasta e una
saggezza che poteva aver acquisito soltanto dopo esperienze di vita fuori del
comune.
Sorpresi alla vista di una
biblioteca così fornita di manoscritti che non avevano mai visti al Vivarium,
frate Leo e frate Lucius avevano entrambi deciso di fermarsi per qualche mese, per esaminare e ricopiare almeno quelli più interessanti. Poiché la regola di
Colmcille impediva di portare via i manoscritti dell’abazia, Lucius aveva alla
fine deciso che doveva assolutamente ricopiare almeno degli stralci di uno in
particolare: si trattava di una copia della Confessio
del venerato vescovo Patricius. Lucius aveva letto voracemente diverse
parti dell’opera, che gli aveva aperto una finestra sul mondo cristiano in quelle terre così a nord.
Anche frate Leo, dopo quasi
due mesi, non era ancora ripartito da Ioua. Aveva avuto lunghe conversazioni
con l’abate Colmcille e con gli altri monaci dell’abazia, e alla fine
aveva deciso di spingersi, come diversi tra loro, all’interno di quella
regione, dove a quanto pare c’erano vasti territori non civilizzati e popolati da pagani che dovevano essere convertiti al cristianesimo.
Nel frattempo Colmcille aveva chiesto a Lucius di assisterlo nella
stesura sotto dettatura, come suo personale scrivano, visto che, oltre a frate Leo, Lucius era l’unico madrelingua
latino presente al momento a Ioua. A quanto pare, era difficile per gli altri
monaci scrivere velocemente sotto dettatura in latino perfetto, e inoltre
Lucius poteva correggere automaticamente eventuali imprecisioni nel latino parlato di Colmcille. Prima di lasciare il Vivarium, Lucius aveva preso i voti, quindi era diventato un monaco a tutti gli effetti, degno di essere lo scrivano personale di un abate. Lucius
aveva accettato con entusiasmo l’incarico impartitogli da Colmcille perché gli permetteva di rimanere a diretto
contatto con una fucina culturale molto attiva, come aveva scoperto con
grande stupore. Chi se lo sarebbe immaginato che all’estremo nord del mondo
conosciuto potesse esistere questa realtà?
Colmcille, senza preavviso, riprese la dettatura:
“A maggior ragione, il nostro compito rimane quello di evangelizzare
le popolazioni pagane e pregare affinché il Signore illumini i sovrani britanni. Essi persistono nelle loro vecchie credenze druidiche, che non hanno portato loro alcun aiuto contro i demoniaci invasori. Il mio druido è Cristo: Lui solo ci può salvare. Possa il Signore mandarci un re cristiano e giusto, degno del compito di riportare pace e prosperità in Brittania. Preghiamo affinché...”
La dettatura venne interrotta improvvisamente da
un rumore: qualcuno bussava alla porta. Colmcille represse un moto d’ira:
odiava essere interrotto quando era al lavoro. Il suo sguardo arrabbiato mise
ancora più in evidenza le profonde rughe del viso, su cui spiccava un grande
naso aquilino. A voce alta rispose: “Avanti!”, nella sua lingua nativa. Negli ultimi tre mesi, cioè da quando lui e frate Leo erano approdati prima in Hibernia e poi qui a Ioua, Lucius aveva studiato a fondo la lingua locale, perché diversi monaci, pur leggendo e recitando le preghiere in latino, non riuscivano a parlarlo fluentemente nella quotidianità, quindi era necessario imparare la loro lingua. Dopo tre mesi di permanenza tra l ’Hibernia e Ioua, Lucius poteva ormai comprendere buona parte di quella lingua, e riusciva anche a parlarla un pochino, anche se non a scriverla: la lingua scritta in ogni monastero, anche in quella parte di mondo, era il latino, anche se lì si trattava di una forma piuttosto distorta di latino. Stando in Ioua, Lucius era venuto a conoscenza del fatto che la regione in cui si trovavano si chiamava Dál Riata e che vi viveva una popolazione che parlava la medesima lingua che in Hibernia.
Un monaco alto e magro aprì l’uscio: “Padre, perdona, so che non volevi essere disturbato. Ma il
principe Áedán mac Gabráin è già arrivato, in anticipo sul previsto”. I nomi di quelle regioni erano molto strani, come lo era la loro lingua. Lucius aveva capito il nome di quel principe solo perché due giorni prima era accanto all’abate Colmcille quando egli aveva ricevuto l’epistola che annunciava la visita.
“Principe? Principe! Ah!”, sbottò Colmcille. “Suo padre era re molti anni fa, ma ora il re è suo cugino, quindi perché si fa annunciare come principe? Con
i loro clan e sottoclan, perché comandano cento contadini e un branco di capre
si fanno chiamare re e principi, che razza di idiozia! Beh, dal momento che è qui
andiamo a sentire che vuole questo principe”.
Lucius rimase sorpreso dalla reazione dell’abate, soprattutto perché all’abazia c’erano capre e pecore donate ai monaci proprio dal re di Dál Riata, per fornire i monaci di latte, cibo e lana. Ma aveva imparato che Colmcille era un uomo molto orgoglioso. Un vecchio monaco l’aveva chiamato toiseach un giorno, e l’abate l’aveva rimproverato per averlo fatto: Lucius aveva appreso che quel termine significava ‘capo’ nella loro lingua, quindi padre Colmcille doveva essere stato una sorta di autorità nel luogo da cui proveniva, e non solo in quanto abate di Ioua.
Quale nuovo segretario personale dell’abate,
Lucius seguì Colmcille. Uscirono dalla cella dell’abate. Fuori, un vento fresco soffiava dal mare, ma era una giornata soleggiata ed era piacevole camminare all’aperto.
I visitatori li stavano aspettando non lontano dall’edificio principale dell’abazia, che fungeva da chiesa (anche se a Lucius sembrava più una capanna che una chiesa come quelle in Italia). Erano tre guardie armate, un grosso omone barbuto che vestiva indumenti cuciti e comodi calzari, e un piccolo ragazzino mingherlino. Padre Colmcille si diresse a grandi passi verso di loro, seguito da Lucius e dall’altro giovane monaco.
Quando furono vicini, l’omone barbuto, il quale doveva essere senz’altro Áedán mac
Gabráin (che nella lingua locale, avevano spiegato a Lucius, significava Áedán
figlio di Gabrán), andò loro incontro sorridendo e tendendo entrambe le mani:
“Venerabile Colmcille!”, disse nella sua lingua. Ovviamente non parlava latino. Doveva avere poco più di trent’anni e aveva un fisico
forte e massiccio. Il suo volto era paffuto e sorridente.
Il monaco strinse le mani dell’ospite, ma alzò di
scatto le cespugliose sopracciglia: “Non venerabile, non sono ancora morto, in
grazia a Iddio. Ti trovo in forma, Áedán mac Gabráin. L’ultima volta che ci siamo visti eri al
seguito di re Conall”.
L’omone, sempre sorridendo, rispose: “Si, allora mio cugino Conall venne qui in visita per assicurarsi che tu e i tuoi monaci foste forniti di tutto”. Poi si fece serio: “Questa volta invece, padre Colmcille, vengo qui con una richiesta da farti”.
Lucius stentava a seguire tutte le parole, ma
riusciva a capire il senso generale del discorso.
L’abate invitò Áedán a camminare all’aperto, sul sentiero che collegava le varie capanne dell’abazia. Frate Lucius e l’altro monaco alto e magro li seguirono da vicino, mentre le tre guardie armate camminavano qualche passo più indietro. Il terreno dell’abazia era abbastanza brullo, senza molta vegetazione, ma i primi steli d’erba primaverile cominciavano a spuntare, dando un po’ di colore a quella terra desolata.
“Padre Colmcille, questo è mio figlio Artúr”, disse Áedán, scarmigliando i capelli biondo cenere del ragazzino mentre camminavano. “La ragione della mia visita
riguarda lui: ti sarei grato, vener… padre Colmcille, se accettassi di
istruirlo. Come sai io sono tra coloro che seguono la tua dottrina cristiana, e
so che un’istruzione qui alla tua abazia farebbe di lui una persona migliore,
molto di più che affidandolo ai nostri precettori dalriati. Credo che il cristianesimo diventerà importante in futuro anche nel nostro regno, come è già avvenuto nel resto di Ériu”.
Colmcille si mostrò sorpreso: “Mmh? Pensavo che la
cosa più importante per i figli di rango della Dál Riata fosse diventare buoni
combattenti”, rispose in tono brusco.
Áedán questa volta guardò Colmcille negli occhi,
mise da parte la sua aria bonaria e si fece serio: “Verrà il tempo anche per
quello. Ma Artúr merita una buona preparazione. È un ragazzino sveglio e può avere un grande futuro davanti”.
“Il ragazzo non è il tuo solo figlio, vero?”, chiese Colmcille.
“Oh no, padre, è il più grande di cinque figli maschi, ah ah! Se lo vorrai accettare e se farà bene qui, potrei considerare di mandarti qualche altro figlio in seguito. Chissà, magari uno di loro deciderà di diventare un monaco!”.
Colmcille non sembrava persuaso. Il discorso poi si spostò sulla politica dalriata e i due interlocutori cominciarono a usare un linguaggio così specifico che Lucius non riuscì più nemmeno a capire il senso generale di ciò che dicevano. Così si dedicò a guardare di sottecchi il bambino, che seguiva il padre un passo
dietro di lui. Era magro e un po’ pallido, ma aveva uno sguardo intelligente e concentrato: era chiaro che stava seguendo per filo e per segno la discussione che il padre
stava avendo con Colmcille. Ma non era un po’ troppo giovane per essere mandato a Ioua?
Ora stavano inerpicandosi su per la collina. Dopo un po’, Colmcille si fermò e guardò il ragazzo: “E a te, Artúr, interesserebbe studiare
qui?”, gli chiese. Parlò con parole semplici, come ci si rivolge ai bambini, e grazie a questo Lucius riuscì a capire.
“Si”, rispose serio Artúr.
“E come mai?”.
“Perché voglio diventare saggio come i re”.
“Ma lo sai che i re spesso non sono né istruiti
né saggi?”.
Artúr rispose sicuro: “Si, ci sono anche i re
cattivi. Ma io intendo i re che vogliono il bene di tutti, non solo il loro
potere”.
Colmcille lo fissò. Poi chiese: “Áedán, la madre
di Artúr è britanna, vero?”.
Áedán sembrò spiazzato da questa domanda: “Si, padre Colmcille, mia moglie è figlia di re Tutgual Tutclyd di Alt Clut. Mia madre stessa era una zia di Tutgual. Spesso avvengono matrimoni
tra noi e donne britanne: rafforzano le tregue, evitano guerre…”.
Colmcille commentò tra sé e sé: “Quindi il ragazzo ha per tre quarti sangue britanno”. O almeno questo sembrò di
udire a Lucius, che gli era proprio accanto.
“Non capisco, padre, cosa c’entra questo?”, fece Áedán. Sembrava preoccupato, come se si fosse reso conto di aver detto troppo.
Il vento soffiava più forte ora, in cima alla collina.
Dopo un momento in silenzio, Colmcille parlò: “È vero, Áedán mac Gabráin, qui tuo figlio può ricevere un’ottima istruzione. I nostri monaci sono saggi, acculturati, e uomini retti. Frate Lukius qui, per esempio, il mio personale scrivano, viene da un importante monastero vicino a Roma, il cuore della cristianità, e il latino è la sua lingua nativa. Può essere un ecellente tutore per tuo figlio Artúr”.
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